Non ho ancora sentito il disco di Lou Reed e Metallica, ho paura di farlo e non perché “già so che non mi piacerà” bensì proprio perché temo che non mi piacerà. Li ho visti da Jools Holland un mesetto fa, una jam intensa un po’ maldestra, un sacco di energia che sembrava spesa più a sottolineare la partnership, il fatto di vedere sullo stesso palco due realtà culturali così diverse e così simili a un tempo, che la convinzione della qualità di ciò che stavano suonando. Voglio solo fare un discorso, diciamo premusicale, sul significato allargato che ha questa strana coppia.
Partono da Berg, mica da Gershwin, Cole Porter o Irving Berlin; e nemmeno da Aaron Copland o da, che ne so, Samuel Barber. Ovvero, partono non da un linguaggio continentale originale, il proprio, bensì dalla scuola di Vienna, la roccaforte del modernismo europeo, che voleva porre fine (e nuovo inizio, almeno questa era l’intenzione) alla vicenda secolare della musica occidentale: l’atonalità.
Non è quindi una ripresa della propria tradizione, ma un ponte consapevole fra cultura pop e alta cultura, un’altra frase al discorso infinito di tutto il Novecento, che ha sancito la fusione dei due mondi. Se vogliamo, la fine della ripartizione rigida di classe almeno quanto al consumo culturale, resa possibile grazie al formidabile apparato tecnologico (la registrazione della musica, i dischi, i fonografi, la forma canzone, ecc.) che gli Stati Uniti avevano a disposizione. E che poi avrebbe portato al dilagare universale della musica cosiddetta “leggera” (tra cui, piaccia o no, figurano pure i Metallica).
Che Lou Reed metta il suo cantare stonato (è un fatto, non un giudizio) al servizio dell’avanguardia dodecafonica (naturalmente non lo fa da un punto di vista strettamente musicale) non è che il compimento di questo processo lunghissimo, la conquista dell’ultima frontiera da reificare, per dirla con Adorno. E per farlo, si affida ai Metallica, band che non potrebbe essere più lontana da quel tipo di territori. Sono tutte cose che Lou ha imparato alla Factory di Warhol, dove i frequentatori medi avevano sicuramente una buona conoscenza dell’Europa e della sua cultura (basti pensare, volendo, anche a Nico). Difficile che nella Bay Area di San Francisco, dove i Metallica si sono formati, se ne discutesse.
A voler volare più bassi – e cinici -, si tratta naturalmente di un’alleanza strategica di due star in declino creativo che cercano affannosamente al di fuori dei propri spazi ispirativi qualcosa che li sospinga di nuovo verso un terreno fertile. Che abbiano scelto Berg, la cui musica è notoriamente “impervia”, è pura sfacciataggine rock and roll. A questo proposito mi viene in mente un aneddoto di Gian Carlo Menotti, uno dei mille che raccontava a proposito degli anni d’oro del Festival dei due mondi di Spoleto.
Era il 1974, e Menotti aveva contattato Roman Polanski per fare la regia della Lulu, appunto. Si trattava della sua prima esperienza in regia d’opera. Tutto andò liscio fino al giorno delle prove. Il regista si presenta al Teatro Nuovo, tutto è pronto per cominciare, l’orchestra nella buca, il direttore, Christopher Keene, attacca. Dopo una manciata di secondi Polanski, l’espressione stravolta, grida: “Fermi, fermi tutti! Ma è questa la musica??”
Credo l’esibizione da Jools Holland sia stata la cosa meglio riuscita di questo malsano progetto.
Ho comperato il disco e non l’ho ascoltato. L’avevo fatto con i brani scaricati e mi è bastato.
Non so. Mi pare che Lou si sia un po’ preso gioco (è il suo stile) dei Metallica. I Metallica sono rimasti lì, al suo cospetto, in inevitabile soggezione.
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Trovo strana questa riluttanza ad ascoltarlo, quasi nel timore di ricavarne avvilimento. È Indubbiamente dovuta alla marea di stroncature. Chissà che invece non ne risulti sorpreso. Parlare di un disco in mezzo al turbine di reazioni che suscita è sempre azzardato
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