L’antiretore

L’atteso discorso di Jeremy Cor­byn alla pla­tea del con­gresso nell’anno zero del par­tito è stato final­mente pro­nun­ciato. Atteso, e quanto: non solo per via della pre­senza ancora un po’ irreale su quel podio di una figura fino a ieri ignota ai più e ora al comando di una delle macchine-partito più vaste e com­plesse d’Europa; ma soprat­tutto per­ché doveva legit­ti­mare il ruolo del lea­der e mostrare la com­pat­tezza die­tro di lui.

Com’è noto, que­sta com­pat­tezza è una delle più gravi man­canze in qua­lun­que pro­getto che si pro­ponga di tra­sfor­mare Cor­byn nei pros­simi cin­que anni da scia­gu­rato piro­mane che spin­gerà ine­so­ra­bil­mente il par­tito verso la pro­pria auto­com­bu­stione a papa­bile di lea­der­ship del paese. Ed è stato pro­prio per cer­care di esi­birla che, dopo il già man­sueto discorso del mini­stro ombra dell’economia, John McDon­nell, Cor­byn ha preso la parola davanti a una pla­tea vasta e con pochi lustrini che somi­gliava più a un con­gresso di par­tito che a una con­ven­tion ludico-aziendale.

Doveva essere il discorso della con­sa­cra­zione, e lo è stato. Durato un’ora pre­cisa, letto per la prima volta con l’aiuto del gobbo, inter­rotto da più di una stan­ding ova­tion, ha por­tato una ven­tata di sen­sa­zioni cui la pla­tea è ormai abi­tuata; dalla per­du­rante estasi dei molti mili­tanti ancora incre­duli di veder­selo par­lare da lì, alle dolo­rose tor­sioni gastro-intestinali dei neo­la­bu­ri­sti e annessi spin doc­tor, da ormai tre set­ti­mane chiusi in un lutto sde­gnato e bal­bet­tante. Ma era soprat­tutto un discorso che doveva pro­iet­tarlo nell’immaginario esteso del paese, fuori dell’elettorato laburista.

Forse anche per que­sto la prima parte, dopo uno scherzo ini­ziale per alleg­ge­rire l’atmosfera, ha seguito quasi fedel­mente il suo primo discorso dopo la vit­to­ria; dopo un pro­lun­gato attacco all’invadenza dei media destrorsi nella vita sua e della sua fami­glia, si è nuo­va­mente inol­trato in una lunga teo­ria di rin­gra­zia­menti urbi et orbi a com­pa­gni (parola mai usata rife­rita all’uditorio, sosti­tuita dal neu­tro «amici»), rivali ed ex rivali fino ai suoi pre­de­ces­sori, per sostan­ziare il suo mes­sag­gio di un’antiretorica poli­tica nuova e dimo­strarsi dav­vero plu­ra­li­sta. E anche per­ché sa che la sua imma­gine eti­ca­mente scin­til­lante sta cat­tu­rando l’immaginazione di un paese dove le figure troppo vir­tuose sono state sem­pre viste con bene­volo sospetto.

Ma soprat­tutto, Cor­byn sa che l’esigenza di rimar­gi­nare la ferita con il centro-destra del par­tito è prio­ri­ta­ria rispetto all’elaborazione di una coe­rente stra­te­gia poli­tica e alla reda­zione di un mani­fe­sto pro­gram­ma­tico. E qui, davanti a un discorso tutt’altro che piro­tec­nico (che tra l’altro il Tele­graph sostiene pro­venga da un ghost wri­ter di Ed Mili­band) si aprono le doglianze dei mode­rati; per l’autoreferenzialità di un inter­vento troppo con­no­tato a sini­stra, che pre­dica ai con­ver­titi anzi­ché con­vin­cere i miscre­denti, che non ha fatto alcun rife­ri­mento al defi­cit e ha addi­rit­tura osato annun­ciare l’impegno del par­tito per la nazio­na­liz­za­zione delle fer­ro­vie. Ha per­fino, fatto iro­nico per i com­pa­gni della Leo­polda, citato l’Italia due volte come esem­pio di paese che pro­tegge la pro­pria indu­stria, a dif­fe­renza dei Tories con la side­rur­gia nazio­nale (è pro­prio di lunedì la noti­zia della sospen­sione della pro­du­zione all’acciaieria di Tee­side, pro­vo­cherà la per­dita di 1700 posti di lavoro).

Non ha men­zio­nato le scuse per l’invasione ille­gale dell’Iraq, che aveva detto avrebbe porto qua­lora fosse diven­tato in futuro primo mini­stro come aveva gri­dato inor­ri­dito un tabloid; ma si è pre­mu­rato di riba­dire ai depu­tati dis­si­denti, forte del suo schiac­ciante man­dato popo­lare, la sua totale con­tra­rietà al rin­novo del sistema mis­si­li­stico nucleare Tri­dent e il suo con­vin­ci­mento che la Gran Bre­ta­gna debba inau­gu­rare una sta­gione di disarmo nucleare uni­la­te­rale. La man­cata vota­zione di ieri del con­gresso su que­sto tema è stata vista come un segno di debolezza.

Il resto è stata una serie di verità sul diva­rio spa­ven­toso e cre­scente fra ric­chi e poveri nel paese, su que­sto governo che distrugge il diritto allo scio­pero, dispensa con infin­garda sicu­mera sgravi fiscali ai ric­chi e tagli ai sus­sidi dei poveri, sul biso­gno di una poli­tica più «gen­tile», e non basata sull’insulto per­so­nale e sulla neces­sità da parte dei mili­tanti labu­ri­sti di «non accon­ten­tarsi di quello che ci viene dato».

Nel com­plesso dun­que sì, è stato un discorso pre­oc­cu­pato più di non per­dere cre­di­bi­lità con i nuovi soste­ni­tori suoi e del par­tito (50 mila da quando si è inse­diato) che di accat­ti­varsi l’interesse del “grande pub­blico”, l’unica con­ces­sione al quale è stata una meta­fora cal­ci­stica in chiu­sura. Insomma, che non fosse un Demo­stene si sapeva; ma a que­sto segre­ta­rio la reto­rica non pare serva tanto.

(il manifesto 30/09/15)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

1 commento su “L’antiretore”

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