L’onere della proroga

Il Regno Unito rischia ancora di uscire alle ventitré Gmt di domani sera senza accordo dall’Ue e in barba ai voti contro un no deal espressi dal parlamento britannico nei giorni scorsi, indicativi o vincolanti che fossero. Salvo che questa non decida di concedergli l’ormai famigerata, ennesima proroga all’articolo cinquanta, si legga scadenza Brexit, che secondo Donald Tusk dovrà essere di almeno un anno.

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Psicopatologia della Brexit quotidiana

A meno di una settimana dal 12 aprile, data in cui la Gran Bretagna schizzerebbe fuori dall’Ue senza accordo con paventate, telluriche conseguenze sull’economia, Theresa May cerca per la seconda volta una Brexit-proroga al 30 giugno, dopo che il suo accordo sul ritiro dall’Ue è stato sconfitto alla camera per la terza volta la settimana scorsa.

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A bad deal is better than no deal

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Mancano nove giorni al 12 aprile, data in cui l’Ue ha stabilito che la Gran Bretagna uscirà senza un accordo non avendo finora approvato l’unico disponibile.

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Brexit means agony

Come volevasi, l’atteso e disatteso sequel della trilogia di Theresa May, Voto Significativo 3, è stato un flop come i precedenti. In una giornata assolata e tuttavia plumbea, complice anche il fatto che proprio ieri cadeva la scadenza originale fissata dalla premier per l’uscita dall’Ue (ai bei tempi, quando ancora ripeteva cibernetica «Brexit significa Brexit»), la camera degli imputati ha rigettato per la terza volta l’accordo. Non uno sganassone come i precedenti, ma pur sempre un’inequivoca sberla, 58 voti di scarto.

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Barcolla, ma molla

Barcolla, ma mollerà. Theresa May potrebbe intravedere – e, con ella, noi tutti – la linea del traguardo del Brexit-strazio. Quella del suo deal, al quale è incatenata. Per farlo ha finalmente promesso che lascerà la carica prima della seconda fase dei negoziati con l’Europa (a luglio, sembrerebbe), ammesso che il boccone del suo accordo della discordia venga finalmente inghiottito da Westminster.

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Non mollare May

È cominciata l’ennesima settimana più importante a Westminster dalla crisi di Suez o, per chi preferisce, dall’avvento al premierato di Winston Churchill (ormai si susseguono da mesi). Dopo l’imponente manifestazione di massa di sabato pro-secondo referendum e i cinque milioni di firme alla petizione online per la revoca dell’articolo 50 e la cancellazione della British exit, gli ingredienti per consolidare la paralisi del parlamento sono tutti ancora lì.

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La marcia dei rimasti

Bandiere europee a Londra alla marcia della campagna pro-Ue People's Vote

Sono scesi a Londra da ogni contrada del Paese, molti dal nord, il milione circa di persone della manifestazione anti-Brexit/pro secondo referendum. Non solo le «èlite», quelli che non ci stanno a uscire dall’Ue, che amano il vino francese, le vacanze in Spagna, l’opera italiana e leggono il Guardian, ma anche moltissimi giovani, quelli che si sentono traditi dalla scelta gretta della borghesia proprietaria, tutta patria famiglia e corona del sud come da quella delle comunità ex-operaie del nord deindustrializzato da Thatcher.

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Disse la goccia alla roccia…

Ieri erano passati mille giorni dal referendum del 24 giugno 2016, oggi l’ora Brexit è letteralmente dietro l’angolo, alla fine della settimana prossima, il 29 marzo. Con una grande manifestazione londinese programmata questo sabato dai fautori di un secondo referendum – il cosiddetto “voto del popolo”, per il quale continuano a non esserci i numeri in parlamento – la commedia Brexit continua a essere recitata a soggetto.

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La Brexiteide, poema poco epico.

Nella Brexiteide (poema prosaico, narra le gesta di una nazione che lascia un continente senza avere la minima idea di come si faccia pur di dirigersi lesta verso una destinazione ancora ignota) i momenti cruciali sono ormai routine.

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