Dead Kennedys – Riot

Naturalmente, tutto il primo strepitoso disco dei Clash parla di quello che e’ successo qui a Londra. Ci sono differenze fondamentali fra questi riots e quelli di venticinque anni fa, ma le atmosfere descritte in quel folgorante esordio, teso, nervoso, nodoso, sono le stesse.

A molti viene da associare l’accaduto con “Anarchy in the Uk”, dei Pistols, ma non e’ un paragone abbastanza calzante, secondo me. E “London’s Burning”  non e’ un pezzo sui riots, quanto sulla noia e l’alienazione che portano alla violenza, uno stadio precedente. Pezzi che parlano dell’esperienza conclamata della violenza sono “Police and Thieves”, qui sotto, “Cheat”, “Remote Control” e, naturalmente, “White Riot”.

Ma il brano che descrive meglio di qualunque altro quello che sta succedendo qui in questi giorni – se non altro per via della descrizione scientifica delle sensazioni di esaltazione date dal distruggere le cose degli altri –  viene dai massimi Dead Kennedys e s’intitola, lapidariamente, “Riot”. Fa sembrare i Clash un gruppo quasi romantico, tanto ruvida, vuota e irredimibile e’ la violenza qui descritta. Perche’ questi riots hanno molto piu’ a che vedere con i disordini descritti dall’hardcore americano, da sempre depoliticizzato, che con quello londinese degli anni della Thatcher. Se questo brano eccezionale ha un “messaggio” (parola da talent show) e’ proprio quello dell’inutilita’ politica della violenza, anche quando sembri equivocamente esaltarne le caratteristiche.

Ho gia’ postato questo video in passato in occasione delle rivolte studentesche dei mesi scorsi, a cui tra l’altro si riferiscono alcune delle immagini montate con questo video, ma credo che vada riproposto, anche solo per via della performance di Jello Biafra, by far the most intelligent man in Hardcore Punk. L’aggettivo “viscerale” non le rende giustizia.

Rioting-the unbeatable high

Adrenalin shoots your nerves to the sky
Everyone knows this town is gonna blow
And it’s all gonna blow right now:.

Now you can smash all the windows that you want
All you really need are some friends and a rock
Throwing a brick never felt so damn good
Smash more glass
Scream with a laugh
And wallow with the crowds
Watch them kicking peoples’ ass

But you get to the place
Where the real slavedrivers live
It’s walled off by the riot squad
Aiming guns right at your head
So you turn right around
And play right into their hands
And set your own neighbourhood
Burning to the ground instead

[Chorus]
Riot-the unbeatable high
Riot-shoots your nerves to the sky
Riot-playing into their hands
Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Get your kicks in quick
They’re callin’ the national guard
Now could be your only chance
To torch a police car

Climb the roof, kick the siren in
And jump and yelp for joy
Quickly-dive back in the crowd
Slip away, now don’t get caught

Let’s loot the spiffy hi-fi store
Grab as much as you can hold
Pray your full arms don’t fall off
Here comes the owner with a gun

[Chorus]

The barricades spring up from nowhere
Cops in helmets line the lines
Shotguns prod into your bellies
The trigger fingers want an excuse
Now

The raging mob has lost its nerve
There’s more of us but who goes first
No one dares to cross the line
The cops know that they’ve won

It’s all over but not quite
The pigs have just begun to fight
They club your heads, kick your teeth
Police can riot all that they please

[Chorus]

Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Police and Thieves

in the streets.

Police and thieves in the streets

Oh yeah!

Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition

From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day
No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I sayPolice and thieves in the streets
Oh yeah!
Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day

No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I say

Police, police, police and thieves oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah
From Genesis oh yeah
Police, police, police and thieves oh yeah

Scaring and fighting the nation, oh yeah
Shooting, shooting their guns and – guns and ammunition

Police, police, police and thieves oh yeah
Scarin’, oh yeah
Scarin’ the nation, oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah

Here come, here come, here come
The station is bombed
Get out get out get out you people
If you don’t wanna get blown up

(il pezzo e’ un classico reggae di Junior Murvin)

Solopsismo

Oggi volevo scrivere un post sul rischio di disfacimento del nostro sistema economico e invece ho cambiato idea perché in questo momento è assai più urgente scrivere di qualcosa di estetico. Del resto, come ci insegnano storia e filosofia, la struttura non determina forse la sovrastruttura? Perdonate dunque quest’excursus sull’importanza del solo di chitarra elettrica nelle nostre vite di testimoni, vittime e correi dell’implosione del capitalismo maturo.

Per chi, come me, è nato poco prima del maggio francese ed è cresciuto testimoniando inconsapevolmente il suicidio politico (e fisico) della generazione del settantasette – mentre quella del sessantotto preparava il transito dei propri glutei dal tonico esercizio delle manifestazioni alla morbidezza accogliente delle poltrone che avrebbe occupato per almeno tre delle generazioni future -, il solo, detto anche “assolo”, era tabù, per via, naturalmente, della funzione sterilizzatrice che aveva avuto il punk.

La storia, la conosciamo fin troppo bene: il punk era colato come olio motore usato sui broccati del rock progressivo, tutto cervello e scale autoerotiche, e ne aveva bruciato gli eccessi, riducendo tutto a una tabula rasa. Via non solo gli assoli, ma anche la capacità di tenere un giro di do. Il legato teorico di questa operazione avrebbe lasciato un segno profondo sulla musica e su chi vi era cresciuto in mezzo, bandendo gli assolo dal panorama rock e affine. Dire che ti piaceva l’assolo era un’ingenuità da metallaro, e difatti il metal è stato l’unico genere in cui l’appestato assolo trovava non solo rifugio, ma anche culto. Il chitarrista metal (non del metal classico, eh), pur di millantare una perizia tecnica che aveva lontani e non del tutto inconsapevoli legami con quella romantica (l’epoca in cui il virtuosismo trovava la propria prima spettacolare codificazione, soprattutto ad opera di mostri come Paganini e Liszt) adottava una semplice ma efficace tecnica: suonare a velocità supersonica, e spesso perdendosi per strada, le stesse due corde, ottenendo così un effetto uragano dove era facile scambiare la velocità e il caos per bravura tecnica (Early Slayer, anyone?).

Devo dire che non ho mai subito il fascino del chitarrista in una formazione rock che dir si voglia: le mie preferenze sono di solito andate alla sezione ritmica, al bassista e al batterista, le fondamenta dell’edificio musicale. Il chitarrista, come il cantante, forse per la sua insopportabile preminenza, e per il suo stare sempre davanti e fare smorfie da contrazione orgasmico-deiettiva nel momento del climax virtuoso, non ha mai goduto del mio favore, a parte degli incidenti autobiografici di percorso subito contenuti. Ho sempre capito il disgusto per l’assolo rock: detesto cordialmente l’iconografia del chitarrista rock, non ho mai subito il fascino di Townshend e a Starway to Heaven ho sempre preferito Hairway to Steven e potrei continuare (chi volesse approfondire, può partire dalla voce cock rock). Mi piace molto Hendrix ovviamente, e uno che lo ha fuso con Bartòk, come Robert Fripp.

Ma ultimamente mi sono dovuto per forza convertire in parte all’assolo per via della carenza di possibilità compositive che il rock si autoimpone, anche nelle sue mille sfaccettature. In una parola: dopo trentacinque anni di ascolti, il pop-rock mi annoia (una volta eliminato il potente coefficiente mnemonico-nostalgico che contiene) e devo per forza emigrare nel jazz e nella classica per trovare delle esperienze musicali più avvincenti, salvo poi tornare sempre e comunque ai Ramones per ristabilire un grado zero e ricominciare tutto daccapo. L’assolo è un viaggio interessante e costituisce l’espressione più compiuta della bravura di un musicista. Quando non tracima in una marea di mucillagine sonora, cosa che – va detto – accade spesso, rappresenta ancora una delle espressioni più compiute di godimento musicale che sia dato avere in questa valle di rate agencies.

È stato anche per questo che ultimamente ho preso ad ascoltare un assolista forsennato, forse il più forsennato degli assolisti: Allan Holdsworth, uno che costruisce il pezzo attorno al solo, come nel jazz, per intenderci. Arguably, Holdsworth ha la tecnica di legato più incredibile che sia dato ascoltare. I suoi solo più riusciti sono come fare un browsing ravvicinato dei particolari della facciata del duomo di Colonia o dell’Alhambra: il Tutto armonico descritto in un flusso magico e incredibilmente luminoso, una coda di cometa. Un tutto che gli viene dall’ascolto dei fiati nel jazz, Coltrane in particolare. Questo quando gli vengono davvero bene. Non gli vengono spessissimo, perchè è un grandissimo musicista ma non altrettanto un compositore. Le sue cose migliori, a parte un paio di album solisti (segnalerei il ragguardevole Metal Fatigue tra i vecchi, Sand e The Sixteen Men of Tain, l’ultimo) sono con gli altri nomi con cui suonava a inizio carriera: tardi Soft Machine, il grande Tony Williams, UK, Bill Bruford, secondi Gong, J.-L. Ponty, ecc. ecc.

Ed è proprio dal pezzo d’apertura del primo disco da solo di Bruford (1978) che voglio segnalarvi la mia idea perfetta di assolo: non troppo veloce, non spumeggiante di note quanto una poesia di D’Annunzio lo è di parole, flessuoso ed economico: solo alla fine gli sfuggono le dita in un accelerazione turbocharged. In questo caso, il brano di apertura dell’altrimenti non entusiasmante Feels Good to Me, gli deve tutto. Fa da contraltare perfetto al drumming appuntito e metronomico di Bruford. Godetevelo, mentre l’economia degli Stati Uniti, per tacere di quella europea, lentamente si squaglia come i ghiacciai dell’Artide.

P.S. A proposito del pezzo live: Holdsworth, come tutti i grandi, cambia sempre dal vivo perché semplicemente va da un’altra parte, nel puro spirito dell’improvvisazione jazzistica. Per questo ho inserito la versione originale, secondo me superiore a quella live. Rispetto a quest’ultima, please notate come l’impaccio di questi musicisti faccia da ilare contrasto alla loro perizia tecnica. Il loro body language sul palco, soprattutto il caracollare incerto di Jeff Berlin, il bassista, esemplifica l’anomalia live del prog e della fusion, generi che si erano scavati uno spazio nell’estetica rock pur essendo privi dei prerequisiti sessual-teatrali di quest’ultimo.

And there you stand, making my life possible

Le canzoni d’amore sono noiose. L’amore è una cosa troppo importante per essere banalizzato, regolarmente, instancabilmente da mille canzonette o filmetti di quarta. Ma l’”amore” tira, da sempre. Nel suo nome, come nel nome della libertà, si perpetrano nefandezze culturali di imperdonabile gravità. Non c’è niente che vende, accarezza e rincoglionisce come l’”amore”. Così diverso dall’amore.

Le canzoni d’amore che meritano davvero questo titolo sono poche. Non è mia intenzione enumerarne una lista, vista la detestabilità delle liste. Ma questa ve la voglio proporre perché secondo me è un autentico capolavoro, la cosa più bella della discografia intera di David Sylvian.  Un brano imperfetto (la parte strumentale è una ticchia lunga, nonostante la magia ultramondana della tromba di Jon Hassell), che apre in maniera folgorante grazie a un testo che leva il fiato. Ogni volta che capita nel lettore, non posso continuare a fare quello che faccio. Mi devo fermare. Torno innocente di fronte alla bellezza.

Nella saturazione musicale delle nostre giornate siamo diventati come medici di fronte alla morte: il bello non ci commuove quasi più, diventa un sottofondo. Provate a chiedervi quanta musica è capace di distogliervi da quello che state facendo in questo momento, anziché accompagnarlo.

È amore vero quello espresso da Sylvian, non innamoramento (volendo noleggiare l’immagine da un immortale autore italiano che lasceremo anonimo), l’amore che non è possibile non vedere davanti a sé quando finalmente si crede ai propri occhi.

L’amore che nonostante tutto, quello che lead our life back to the soil.

When you come to me
I’ll question myself again
Is this grip on life still my own

When every step I take
Leads me so far away
Every thought should bring me closer home

And there you stand
Making my life possible
Raise my hands up to heaven
But only you could know

My whole world stands in front of me
By the look in your eyes
By the look in your eyes
My whole life stretches in front of me
Reaching up like a flower
Leading my life back to the soil

Every plan I’ve made’s
Lost in the scheme of things
Within each lesson lies the price to learn

A reason to believe
Divorces itself from me
Every hope I hold lies in my arms

And there you stand
Making my life possible
Raise my hands up to heaven
But only you could know

My whole world stands in front of me
By the look in your eyes
By the look in your eyes
My whole life stretches in front of me
Reaching up like a flower
Leading my life back to the soil

(1984)

Non solo grande musica: grande poesia, con la quale l’esile Sylvian, splendida versione umana di uno whippet, dimostrava chiaramente di volersi scrollare di dosso il “dandismo frivolo” dei Japan. E, manco a dirlo, ci riusciva brilliantemente.

Questa è la canzone da dedicare alla persona della vostra vita. Ma, se non avete ancora capito chi è, aspettate a fargliela ascoltare.

Morte di una cantante

Amy Winehouse se n’è andata, lasciandoci con un doloroso strascico – più che di interrogativi – di tristi consapevolezze. Il suo è stato un suicidio in diretta cominciato anni fa e documentato su ogni supporto mediatico giornalistico possibile: fotografico, televisivo, di social network ecc. Il fatto che ieri abbia trovato finalmente compimento lascia in bocca l’imbarazzante amarezza del cinismo. Non intendo discutere della sua morte da un punto di vista umano: non conoscevo la ragazza, e le prefiche virtuali le lascio a chi crede di averla conosciuta e di essere davvero triste per la sua scomparsa. Non voglio nemmeno discutere le forme di lutto “al telefono” create dalla società dello spettacolo, che innescano strampalati processi di identificazione in una figura inesistente, gonfiata con l’elio della fama: l’orrore inimmaginabile della Norvegia impone una sorta di inevitabile, puritana prioritarizzazione (sì, è una parola inventata) nell’ordine delle cose su cui interrogarsi.

Quel che è certo è che con questa triste scomparsa la cultura pop del XXI secolo non fa che adeguarsi a quella del XX, ora che abbiamo altro materiale da gettare nel calderone del “club dei 27” e altre menate mitopoietiche. La sola, ma fondamentale, differenza è la mancanza del mito: il suicidio di Amy Winehouse è stato radiografato fin dagli inizi e porta su di sè il marchio di un’inevitabilità inesorabile. Le cronache traboccano di estenuanti rendiconti delle suo processo autodistruttivo. In altre parole, un’inevitabilità che non lascia spazio a variazioni per violino sull’ormai logoro, e fastidiosamente retorico, tema dell’artista maledetto. “Il talento è stato lo zolfo che l’ha fatta bruciare immediatamente, come un sottile fiammifero”, mi verrebbe da scrivere. La realtà è che non sappiamo cosa l’abbia spinta davvero a voler morire, non lo sanno nemmeno le persone a lei più vicine, non lo sanno nemmeno il padre e la madre. La ricordo con questa cosa che ho scritto qualche anno fa nel mio blog di allora.

Amyshambles

La musica di Amy Winehouse potrà anche essere “appalling” come ha scritto qualche critico, probabilmente sedicenne, su Pitchfork tempo fa. Non posso lasciarmi trasportare dal furore iconoclasta della gioventù, anche se davvero non mi vedo a mettere la sua roba retrò nel lettore dopo una giornataccia, nonostante viva circondato da tecnologia che a stento supera il 1985. Per me lei è come un ottimo copista di Caravaggio. Che me ne frega del copista quando posso andare a S. Luigi dei Francesi? Ma non è della rilevanza, peraltro indiscutibile, di quest’artista che voglio parlare, quanto della sua incalcolabile vulnerabilità. Lo faccio dopo aver letto le reazioni della stampa britannica al concerto a Birmingham col quale ha inaugurato il suo tour in UK. Un concerto disastroso secondo alcuni, potente e autentico secondo altri, dove l’artista ciondolava instabile sul palco trangugiando secchiate di alcol mentre apriva il suo cuore alla disperazione per la sorte del marito.

Come alcuni di voi sapranno, il marito della ragazza è in galera per aver cercato di corrompere un teste dell’accusa in un processo per aggressione che lo vede imputato. Che costui sia un cialtrone, come tutti si affannano a sottolineare, è un fatto di per sé irrilevante. L’amore è cieco e tutte quelle cose lì. Amy, personaggio autentico in modo disarmante, anche nel talento, è una giovane donna incapace di mentire e tantomeno di simulare: il suo meltdown, il suo crollo psicofisico è un fenomeno che avviene in diretta, senza filtri mediatici, o le coperture di PR tipiche degli entourage di una star del suo calibro. Anche il suo matrimonio è avvenuto all’insegna dell’autenticità: a Miami, davanti a quattro persone. Dopo, un cheesburger e una chiusa in albergo, come due adolescenti in fuga.

Winehouse è una donna insicura di tutto, tranne che del suo talento. Non è bella, in primis. E in un mondo come il suo, dove il packaging conta spesso più del contenuto, essere la migliore songstress della sua generazione davvero non le basta. La sua commovente dipendenza nei confronti del marito, e quella non altrettanto commovente nei confronti delle sostanze, evocano il ricordo di altre grandi stelle tristi, non convenzionalmente attraenti e per questo autodistruttive: Edith Piaf, o Anna Magnani, per non parlare delle grandi signore del jazz: Ella, Nina, Billie. Donne a cui era negato il plauso universale e istintivo che concediamo prontamente quando i nostri occhi illuminati si posano sulla loro bellezza, e che devono fare costantemente i conti con una visibilità ottenuta solo col talento che, crudelmente, amplifica a dismisura la loro inadeguatezza estetica, o meglio, la loro soggettiva percezione di questa. Donne spesso attanagliate da dolore e tossicopendenza.

I giornali britannici si dividono su Winehouse. Il problema è che sta nel mondo sbagliato. È una jazzista che ha fatto crossover nel mondo del pop, dove le regole sono precise: essere belle, finte, in playback. Lei non è bella, è reale e sa cantare. È arrivata direttamente ai tabloid senza passare per i fumosi jazz club. E questi, col loro populismo forcaiolo, ora ne condannano il pessimo influsso sulla gioventù (un panico moralista che accompagna da sempre il conservatorismo culturale). I quality papers la difendono, terrorizzati dall’essere tacciati piccolo borghesi. Per loro, Winehouse è un altro agnello sacrificato sull’altare della celebrità. In mezzo sta l’essere umano Winehouse, inafferrabile eppure disarmante nel suo bisogno di aiuto. Un aiuto che la società dello spettacolo non è capace di, né tenuta a, dare.

(15/11/07)

Music to procreate by

No, this is not a post about Barry White, his status in contemporary pop music being far from debatable. It is about the solo record of a friend, and as often with friends involved, you may excuse the cheeky bias in its favour. But is a great relief, while rereading it over and over, not to feel the need to raise an eyebrow: I can stand by it anytime, so much I enjoy it. It is not a review, despite the format and the tone might suggest the opposite; rather a bunch of reflections jotted down with the record looping.

Whereas, long ago, a good artist had to provide certainties, today he can get away with being “only” a good questioner: the crushing duty of coming up with the (always provisional) answers rests on the scientist’s shoulders. Well, in Paternity, Chris Cordoba’s first solo album, Jack Adaptor’s guitarist does exactly that: he fearlessly asks big questions. He achieves that without uttering a single word, by letting his guitar – augmented only by a succinct palette of sounds and effects – carrying out the job. The result is a very nocturnal record, full of all the shades that inhabit the night: from pitch dark to the sparse, dim brightness of dawn, from the emptiness of silence to the liquid feeling of distant echoes.

The guitar is the sole protagonist here, intended as a searching tool rather than phallic vehicle of virtuoso autism. The latter trait makes of Cordoba a 360 degrees musician rather than a guitarist’s guitarist. Neither does the much-abused term “ambient” any justice to this collection: these tracks contain the attentive listening of a multiplicity of directions by a sensitive ear. Then of course there is the biographical element of becoming a father. Cordoba has pushed that to the forefront, but fatherhood is only a unifying element, not the cause and effect of this music. These are, in my humble opinion, life itself, whose complexity and burden we are, here in the West, getting used to embrace at an increasingly later stage. It is a record about the intensity of being alive and of eventually acting as a channel to life, but stripped bare of the self-indulgence and navel-gazing that often come with such experience.

The numbers here go from the mere contemplative (a tranquillity that brings to mind the late, almost mystical soundscaping by Robert Fripp) to more actively engaging the listener, up to being blatantly impervious: here and there, some brilliant reminiscences of Bill Nelson may be heard. But instead of proceeding with the annoying guesswork of which and of whom the influences on this record are, we should focus on its straightforwardness and urgency, both conveyed by a “no-frills” recording approach: the ideas here were strong enough to sustain the risks of an impetuous release, deliberately dodging the traps of overproduction. This sense of confidence stays with you throughout the listening and turns a seemingly “difficult” experience into an effortless, rewarding one.

All in all, a defiantly beautiful set about the business of being alive.

Ameri-Ameri-Ameri-Ameri-American

Nessun rant contro la politica estera degli Stati Uniti, solo uno dei miei pezzi preferiti di una delle mie band preferite dei vituperati Ottanta al meglio assoluto della forma, in una breathtaking versione rimasterizzata. How good were they? Sul palco, Kerr era un vero poeta maledetto.

New Shoreditch Twatters

Shoreditch Twat era il titolo di una fanzina, edita in quel di Shoreditch a inizio anni Duemila, nel pieno boom delle gallerie d’arte che avrebbe dato la stura alla colonizzazione di yet another zona ex povera da parte dell’esercito di giovani  media/arts/whatever types che “vedono gente fanno cose” in maniera inesorabilmente, rigorosamente, spasmodicamente “cool”.

Quest’ossessione con l'”essere cool” è un segno dei tempi. Certo, lo si voleva essere anche in passato: ma mai come in quest’ultimo decennio, le subculture giovanili tradizionali (un tempo rozzamente riassumibili nella triade musicale punk/goth/metal e rispettivi sottogeneri) hanno cessato di avere la musica come propria ragion d’essere, per lasciare il posto a una nebulosa ibridazione tanto caleidoscopica (leggi indefinita) culturalmente quanto musicalmente generica (leggi insipida).

Da elemento pur imprescindibile, ma connesso ad altro, lo stile è ora diventato un tirannico leit-motiv la cui preponderanza ben si accomoda nel vuoto lasciato da altri contenuti, persisi chissà dove.

E se, ancora una volta, il termine indie  – come una nube di cenere del vulcano islandese dal nome un po’ meno impronunciabile di quello dell’anno scorso – , “circonfonde” tutti i luoghi di questo discorso rendendoli disperatamente analoghi, il twat (ormai, lo ribattezzerei Twatter) di Shoreditch/Hoxton ha aggiunto al suo CV una serie di caratteristiche estetiche e stilistiche che relegano la musica decisamente in secondo piano.

Queste caratteristiche furono per la prima volta schizzate in modo esilarante dalla fanzine in questione; ma se allora Shoreditch era un posto in East London battuto da drappelli di Twatters relativamente contenuti, adesso è diventata una vera e propria Twat Republic, che si spinge ormai fino a Bow (luogo a suo tempo molto white trash dove il sottoscritto ha vissuto per dieci anni quando Dizzee Rascal e Amy Winehouse erano ancora alle medie), portandosi dietro l’obbligatorio cortège di organic café, formaggerie francesi, pizzerie italiane a taglio, negozi di modernariato cheap  (a prezzi folli) eccetera.

Tanto da aver stimolato operazioni come quella sotto, che, pur nella loro innegabile volgarità, tratteggiano in modo a volte irresistibilmente comico l’identikit di una figura socioculturale giovanile chiaramente bianca e middle class che ha ormai definitivamente accantonato  politica, musica (intesa come questione di vita o di morte) e altre devianze giovanili affogandole in una marea di skinny jeans, occhiali retro, ciuffi, zucchetti di lana, barbe, mocassini e flanelle.

La differenza era che all’epoca, negli anni beati della finanza blairiana, i lavori nei media c’erano e le riviste aprivano a ritmo di due alla settimana. Adesso, il quadro è un tantino mutato, aggiungendo una nota grottesca a tutto il sembiante.

Have a laugh (di seguito, il testo)

Got on the train from Cambridgeshire
Moved down to an East London flat
Got a moustache and a low cut vest
Some purple leggings
and a sailor tat
Just one gear on my fixie bike
got a plus one here for my gig tonight
I play synth…
We all play synth
20-20 vision just a pair of empty frames
Dressing like a nerd although i never got the grades
I remember when the kids at school would call me names
Now were taking over their estates
woah ho

(chorus)
I love my life as a dickhead
All my friends are dickheads too
come with me lets be dickheads
(havent you heard?)
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool cool cooooool

Polaroid app on my iphone
taking pictures on London Fields
up on the blog so everyone knows
were having new age fun, with a vintage feel
coolest kids at a warehouse rave
exclusive list look theres my name
I got in…
You couldn’t get in

never bought a pack of fags i only roll my own
plugging in my laptop at the starbucks down the road
say i work in media im really on the dole
im the coolest guy you’ll ever know
woah ho

(chorus)
I love my life as a dickhead
All my friends are dickheads too
come with me lets be dickheads
(havent you heard?)
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool cool cooooool

Loafers with no socks
Electropop meets southern hip hop
Indeterminate sexual preference
Something retro on my necklace

Live is Life

Ancora sotto la botta dei Laibach, ieri. Naturalmente, la questione rimane una, imprescindibile: se il loro metodo, lungi dall’essere preso sul serio,  viene applicato ai tre quarti della cultura popolare contemporanea, il rischio è che essa mostri un nemmeno troppo nascosto volto fascista, il suo vero volto, quello che siamo stati programmati a non vedere. La loro disinvoltura nel manipolare il totalitarismo e giocare con la nostra fin troppo morbida acquiescenza a subirne il fascino è sfacciata e terribile.

Mi sono piaciuti ieri sera, lo ammetto con una certa riluttanza. La loro è pura pornografia musicale e iconografica (le uniformi, i simboli pseudo celtico runici) che ti aggancia col suo misto di disgusto e bieco appagamento di bassi sensi. Ma i Laibach non li puoi liquidare con un netto, anche se apparentemente, salvifico, rifiuto: come ho sempre fatto io trincerandomi dietro un “no” ideologico. Il loro è un discorso più raffinato dell’apparente, brutale idolatria della forza e della milizia. È terribile vedere come giocano con l’estetica pop dimostrandone la funzione uguale e contraria a quelle totalitarie del passato e del presente. Le loro cover di pezzi eurotrash rifatte in chiave wagneriana sono irresistibilmente comici, ma anche sinistramente esaltanti: la forma di straniamento musicale più potente che abbia mai sentito. Il loro decostruire e ricostruire assai più raffinato di quanto sembri:

Ma il trattamento non risparmia nemmeno i classiconi della tradizione, anche se il risultato è meno irresistibile:

Mi sono chiesto immediatamente cosa ne potesse pensare uno come Slavoj Žižek: non ci ho messo molto a trovare questo clip di un quindicennio fa, in cui il filosofo sloveno (come loro) applica il tipico capovolgimento dialettico-paradossale, che è il nerbo del suo metodo, all’estetica della band di Lubljana, pardon, Laibach:

In pratica la questione è: siamo davvero convinti che la sedicente non-ideologia del mercato, che avrebbe, ci vogliono convincere, sconfitto definitivamente le ideologie totalitarie, non sia essa stessa un’ideologia totalitaria mascherata da democrazia liberale, in cui tutti sono liberi di fare quel che vogliono purché producano, consumino e ottemperino così alla propria funzione nella società di mercato? Siamo sicuri che le adunate calcistiche e le arene rock siano così lontane da quelle di Leni Riefenstahl? Perché vedere dei tizi grandi e grossi in uniforme che urlano su ritmi robotici e opprimenti suona così familiare?

Non sono in grado di dare alcuna risposta esauriente alle domande di cui sopra. Ma una cosa credo di averla capita: quello che i Laibach dimostrano essenzialmente è che la storia non è finita, che l’Occidente crede di aver sanato le sue oscenità, seppellendole sotto fiumi di frappuccino fair trade. Non è vero. Dobbiamo ancora fare i conti con il Novecento, e con i fiumi di sangue che scorrono carsici, nemeno troppo, sotto i nostri piedi.

Mute anniversary @ Roundhouse (day two, a post in real time)

ERASURE

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More to follow (Andy Bell is a camp idol, Vince Clarke a synth god)

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SCUM, l’ultima giovane scommessa di Daniel Miller, un piccolo salto di epoca e di clima.

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LAIBACH

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Il cuore nero dell’Europa. Il ritorno di atmosfere della seconda guerra mondiale frantuma il sogno pop. Perfetta colonna sonora ustascia. Il fascino perverso della militarizzazione. I Death in June in confronto sono i 99 Posse. Sull’attrazione dell’estetica fascista per la cultura pop Susan Sontag ha scritto pagine interessanti. Ma questa non è roba anglosassone.

MARTIN GORE DJ SET

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Un set teso e dritto, in my humble opinion più interessante di quello di R. Hawtin di ieri sera. Gore è un’anima fragile, in bilico fra la disumanità della macchina e un timido lirismo. Ed è la forza del songwriting dei Depeche Mode. Riesce a rendere musicale anche un Dj set. Semplicemente esaltante vedere uno di questa statura usare la tecnologia. Conclude il set, epico suonandoci sopra. Ah, quei synth, ah quei suoni. Sembra Harmonia. Deutschland.

NOTA CONCLUSIVA

Senza i Kraftwerk, il gruppo più influente della storia dopo i Beatles, tutto questo – e molto altro ancora – non sarebbe mai accaduto.

Ps: sorry per le fotacce telefoniche.