Dopo il colloquio di prammatica a Buckingham Palace con la sovrana, nella prima conferenza stampa a seguito della dissoluzione del parlamento di lunedì — formula, questa, che non indica uno degli obiettivi dell’anarchismo né certi passaggi del Marx più ermetico, bensì l’ingresso ufficiale delle istituzioni britanniche nella campagna elettorale — David Cameron ha per l’ennesima volta cercato senza successo di resuscitare una certa retorica churchilliana, la solita su cui i Tories campano di rendita dal 1945. Continue reading “Pubblicità comparativa”
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La geremiade di Ed Miliband
Pur essendo l’avamposto europeo della società dello spettacolo, la Gran Bretagna ha mantenuto un sorprendente pudore quanto al documentare mediaticamente il funzionamento del potere giudiziario e di quello politico. Nel senso che la televisione fino a qualche tempo fa non entrava nelle aule di tribunale (è stata ammessa nelle corti d’appello solo nel 2013) e che solo l’anno scorso sono stati introdotti i confronti elettorali televisivi. Continue reading “La geremiade di Ed Miliband”
Una laurea in comode rate
In quest’Europa rovesciata, dove gli interessi dei cittadini sono sempre più subordinati a quelli degli azionisti, dove i consigli di amministrazione contano più della collettività e l’interesse privato viene regolarmente anteposto al benessere pubblico, il ripercorrere le esatte direttrici di sviluppo della deriva neoliberista non è mai faccenda immediata. Continue reading “Una laurea in comode rate”
Stop Gear
Selling Britain By the Pound
Il prossimo sette maggio, i britannici andranno alle urne per le elezioni politiche 2015, dopo un anno di tumulti politico-istituzionali che ha visto la secessione sfiorata – con il referendum scozzese – e la vittoria Ukip alle ultime europee. A poche ore dall’inizio formale della campagna elettorale (il 19 dicembre), l’esito delle elezioni si annuncia più che mai imprevedibile: era dalle politiche del 1945 che i due partiti non si fronteggiavano da posizioni così ravvicinate nei sondaggi. A complicare il quadro, la frantumazione territoriale del voto, con i vecchi equilibri dell’Unione ormai per sempre alterati dal referendum scozzese. Conservatori e laburisti sono dati entrambi al 31%, con i primi che al momento conseguirebbero 282 seggi contro i 280 del Labour. Non si azzardano dunque pronostici: nel caso in cui nessuno dei due partiti ottenga una maggioranza assoluta, l’ipotesi dell’Hung Parliament (parlamento sospeso) è data al 91%. Questo renderebbe probabili un parlamento di minoranza, o un’altra coalizione. In questo caso, a giudicare dal tonfo dei Libdem, sembra proprio che l’ago della bilancia – o il “kingmaker” – sarà Nigel Farage. Il trend è comunque quello della progressiva perdita di rilevanza dei due partiti su cui si poggia il sistema, di cui hanno beneficiato notevolmente lo stesso Ukip e lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, che in Scozia ha spazzato via la storica roccaforte Labour. A capitalizzare della catastrofica parabola dei Lib-dem sono soprattutto i Verdi, che da tre mesi li hanno saldamente agganciati nei sondaggi.
Buffalo Soldier
C.Rap
Creepy mission, mission creep
481 sì contro soltanto 43 no. Qualche astensione. Questa volta si va, la Royal Air Force è pronta a lanciare i Tornado. Cameron ha mietuto una schiacciante maggioranza nel voto parlamentare di venerdì pomeriggio sul via libera ai bombardamenti in Iraq. Dietro di lui, compatta la coalizione Tory Lib-dem, con a rimorchio il Labour di Miliband.
Sei bombardieri della Raf di stanza a Cipro, che hanno effettuato voli di ricognizione sull’Iraq del Nord nelle ultime settimane, sono pronti a colpire nello spazio di ore. Per ora ci si limita all’Iraq: Ed Miliband non intende allineare il Labour al consenso su attacchi aerei anche alla Siria e Cameron avrebbe potuto subire nuovamente l’imbarazzante sconfitta dell’anno scorso. Senza una risoluzione dell’Onu, sulla quale i russi eserciterebbero di certo il proprio veto, Miliband non intende muoversi.
Poche, durante la seduta, le voci discordanti. Come quelle di Diane Abbott, deputato per la circoscrizione londinese di Hackney, e quella di George Galloway, il deputato di Respect. Ma lo stesso arcivescovo di Canterbury, l’ex banchiere Justin Welby, si è espresso a favore. In linea teorica non c’era nemmeno bisogno di richiamare il parlamento: Cameron poteva decidere autonomamente l’intervento. Ma la memoria della famigerata invasione nel 2003, tra le cause principali della catastrofe mediorientale nella quale gli Usa e la Gran Bretagna stanno scivolando nuovamente, obbligava almeno l’osservanza della forma.
Un sondaggio condotto dall’agenzia YouGov per conto del Sun, le cui prime pagine di questi giorni sbavano vendetta, dimostra che la maggioranza dell’opinione pubblica è incline all’intervento aereo. Più del 57% si è detto favorevole ai bombardamenti in Iraq, mentre il 51% li estenderebbe alla Siria. Favorevole a una vera e propria invasione militare è il 43%. Cameron è forte del consenso civile scatenato dalle odiose immagini delle decapitazioni di cittadini inglesi americani e francesi delle ultime settimane.
Un altro ostaggio britannico, il tassista volontario Alan Henning, è nelle mani del «Califfato»: la mobilitazione di varie personalità religiose musulmane britanniche potrebbe non essere sufficiente a salvargli la vita. Significativo il lessico da tregenda rimbalzato in questi ultimi giorni: «Sono terroristi psicopatici che cercano di ucciderci» ha detto Cameron.
In un crescendo di retorica grandguignolesca i militanti delll’Isis sono descritti come psicopatici, rivoltanti, atroci, mostruosi, indicibili, velenosi e satanici. Ha aggiunto che ci vorranno anni e non mesi per schiacciare lo Stato Islamico. È evidente che, se potesse, opterebbe senza alcun dubbio anche per i «boots on the ground», l’impiego di truppe di terra. Un’ammissione fatta nel corso del suo intervento, nel quale ha definito l’operazione come necessaria alla difesa degli interessi nazionali.
Dietro questa anodina espressione da gergo diplomatico si nasconde la scottante questione dei cittadini britannici accorsi a combattere in Siria, un problema che se interessa tutta l’Europa – sarebbero 3000 i giovani musulmani europei coinvolti nella guerra civile – riguarda soprattutto la vasta popolazione islamica della Gran Bretagna.
Il cosiddetto «Jihadi John» il decapitatore numero uno apparso nei terrificanti video delle esecuzioni, ha un accento evidentemente inglese. Solo per questo l’attacco assumerebbe a sua volta i contorni di un’altra guerra civile.
Resta il fatto che non c’è un piano coerente nemmeno a medio termine in tutta l’operazione e che il rischio che i bombardamenti siano insufficienti a risolvere la situazione quando non del tutto controproducenti, provocando ulteriore destabilizzazione nella regione. Bombardare solo in Iraq è considerato insufficiente da coloro che sono favorevoli all’intervento e la prospettiva di un’escalation del coinvolgimento del Paese è tutt’altro che irrealistica, senza contare le possibili ricadute terroristiche nella madrepatria.
E la cosiddetta «mission creep», il timore evidente ci si stia nuovamente impelagando in un acquitrino dal quale rischia di non uscire se non ad altissimo prezzo, umano e politico, serpeggia fra i banchi di Westminster.
Tariq Ali sull’esito del referendum scozzese
Mia traduzione di un pezzo d Tariq Ali, sul manifesto di oggi. Ali è stato una delle forze motrici della Radical Independence Campaign.
Il risultato scozzese farà felici gli unionisti di ogni sorta, dagli orangisti ai tories, fino ai laburisti. Il Regno Unito è salvo. Hanno vinto di 400.000 voti. Non un grande trionfo: una vittoria tuttavia, e la sconfitta del movimento indipendentista. Attendo i dati definitivi su età, genere e classe prima di commentare questi aspetti, ma la storia non finisce qui. La loro vittoria è stata resa possibile da un Project Fear («Progetto Paura», ndr) che ha richiesto una campagna mediatica di feroce intensità che sarebbe piaciuta a Goebbels. Riporta alla memoria le recenti offensive in Sudamerica, ma lì avevamo vinto nonostante l’opposizione del 99% dei mezzi d’informazione. Anche qui i media hanno avuto il sostegno di una violenta campagna delle grandi aziende, banchieri in testa, e tutti i partiti mainstream.
Nonostante ciò, il voto per l’indipendenza era quasi al 45% e a Glasgow e Dundee ha ottenuto la maggioranza. Quanto la memoria sia corta di questi tempi lo dimostra l’elevazione di Gordon Brown a salvatore dell’Unione. Buona la sua performance a base di lacrime di coccodrillo per quell’Nhs che lui e Blair avevano già cominciato a privatizzare e indebolire con dubbie iniziative finanziarie private. Il ministro della Sanità del New Labour Alan Milburn ora lavora per l’industria farmaceutica, in un’azienda che aveva aiutato da ministro!
Che succederà ora? Cameron userà la vittoria per presentarsi come il salvatore dell’Unione e non del tutto a torto. Dopo tutto il Project Fear è stato lanciato a Downing Street con Nick Clegg ed Ed Moribund (Miliband, ndt) costretti a servire da paggi. Allo stesso tempo Cameron porterà avanti (con le misure della devo-max) una legge che squalificherà i deputati scozzesi dal votare su questioni inglesi. Questo manterrà i Tories uniti, lo Ukip felice e il Labour fregato. Niente più carne da cannone scozzese per i voti di Westminster sulla finanziaria!
In Scozia il Snp farà un intenso esame di coscienza. Come avranno fatto a perdere nelle loro roccaforti? Non si saranno impegnati abbastanza? Salmon (senza la «d», ndt) dovrebbe lasciare e subentrargli Sturgeon? Salmond ha dato le dimissioni. È stata una decisione onorevole e a novembre il Snp eleggerà un nuovo leader che con ogni probabilità sarà Nicola Sturgeon. Che dovrà fare un’autopsia rigorosa.
A sinistra la vivace e non settaria Radical Independence Campaign ha lottato bene. È importante conservare e rafforzare una corrente come questa nella politica scozzese per perorare la causa di una Scozia diversa, e questo significa tenere unito il movimento. La Scozia radicale non scomparirà, e qui il modello non dovrebbe essere alcuna regressione ai comprovati fallimenti della sinistra socialista ma più qualcosa di simile al Podemos spagnolo. Vi saranno tristezza e demoralizzazione ed è perfettamente comprensibile, ma non durerà a lungo.
La politica britannica sta peggiorando, non migliorando. La paura conduce alla passività e anche se in questo caso gli unionisti sono riusciti a portare alle urne i timorosi, potrebbero non riuscirci di nuovo. La speranza porta all’attività e questo è ciò che la campagna per l’indipendenza ha rappresentato. Vinceremo la prossima volta.
(No: they could)
(Ovvero ciò che avrebbe potuto significare la vittoria del sì per il referendum sull’indipendenza scozzese)
In quella che potremmo definire la sinistra britannica «extralabour» il dibattito sull’indipendenza travalica i confini angusti della critica ortodossa al nazionalismo. Tale dibattito è riassumibile in questi termini: l’attuale coalizione, capitanata dalla premiata ditta Cameron & Osborne, che sta proseguendo imperterrita nello smantellamento di quel welfare state che dal secondo dopoguerra si era reso garante di una relativa pace sociale, non è che l’ultima di una serie di maggioranze che, nel centrodestra come nel centrosinistra, si avvicendano in tale smantellamento. Urgeva una via di fuga da un simile destino già scritto. L’indipendenza scozzese potrebbe esserlo. Poco importa che siano i nazionalisti a propagandarla.
Se ne sono resi conto in tanti nella sinistra britannica. Personaggi come come Billy Bragg, Tariq Ali e Irvine Welsh, artisti e intellettuali tutti riconducibili alla sinistra del Labour, hanno ripetutamente dichiarato il proprio sostegno per l’indipendenza, pur prendendo le distanze da un certo lezzo nazionalista ortodosso che si leva da alcune fila del fronte Snp. Significativa, a questo proposito, la posizione del singer-songwriter inglese Bragg. Dalle colonne del sito del Guardian, ha risposto alle accuse di tradimento della solidarietà internazionale della working class. Ha ammonito coloro che a sinistra – pur giustamente – aborrono qualunque forma di nazionalismo, invitandoli a non chiudersi nell’asfittica gabbia di un internazionalismo a tutti i costi. Ma soprattutto, ha confutato i paragoni strampalati fra il nazionalismo etnico dei fascisti del British National Party e quello civico del fronte scozzese del sì, che esprime una congerie di realtà politiche antagoniste che travalica il Snp. «Il nazionalismo etnico del Bnp è visibile a tutti: il piano per una società che esclude le persone su basi razziali. Il programma del Snp ha una posizione diametralmente opposta: è per una società inclusiva basata su dove ti trovi, non da dove vieni».
Nel motivare la propria adesione al sì, Neal Ascherson, giornalista scozzese allievo di Eric Hobsbawm, ha scritto sul quotidiano scozzese Herald: «La guerra in Iraq e Tony Blair mi hanno dimostrato che il Regno Unito non è più un paese indipendente; la campagna referendaria ha rivelato che molti scozzesi stavano rompendo la gabbia di impotenza e dirigendosi verso l’indipendenza che avrebbe portato alla grande scelta: che Scozia vogliamo?»
Da critico dell’establishment di lungo corso, Tariq Ali ha affidato i suoi commenti a un intervento sulla London Review of Books: «La Scozia è una nazione da lungo tempo» ha scritto in una editoriale collettivo, «Scopriremo presto se i suoi cittadini desiderano ora che la nazione diventi Stato. Spero di sì. Non solo aprirà nuove opportunità per il loro Paese, ma romperà lo Stato britannico atrofizzato e decadente e ne ridurrà l’efficacia come vassallo degli Stati Uniti. Questo spiega gli appelli di Obama e Hillary Clinton a votare no, un sentimento che Blair condivide appieno, ma che non osa ammettere nel timore di dare impeto alla campagna avversa». Per poi aggiungere: «La notevole crescita del movimento pro-indipendenza è il risultato dello smantellamento del welfare state da parte di Thatcher e dell’ammirazione che per esso hanno avuto Blair e Brown. Fino allora, gli scozzesi erano pronti a restare con il Labour nonostante la corruzione e ribalderia che caratterizzava la macchina del partito in Scozia. Ora non più».
Dal canto suo, lo scozzese Welsh ha scritto un appassionato intervento su Time: «Qualunque sarà il risultato, sarà quella minoranza turbolenta, litigiosa e compassionevole degli scozzesi a prevalere, e in modo del tutto straordinario. Con una percentuale d’iscritti al 97%, mai vista nel mondo occidentale, hanno mostrato che una potenza del G7, impelagata com’è in un modello di globalizzazione neoliberista, può subire una sfida, una rottura. E l’istituzione di una democrazia vibrante e non militarizzata»
