172 contro 40, è il risultato del voto di sfiducia nei confronti di Jeremy Corbyn. Nell’ennesimo di una serie di terremoti-matrioska innescati dal referendum di giovedì scorso, più dell’80% dei parlamentari laburisti gli si è pronunciato contro, dopo una serie di incontri, pianti, accese discussioni e litigi.
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Guerra incivile
Adesso per il Labour party il “leave” per o contro il quale lottare è quello di Jeremy Corbyn. Il risultato del referendum non si è limitato a falciare il premierato di David Cameron, ha esteso il suo caos destabilizzante dentro al principale partito d’opposizione, squassato da un’endemica volatilità interna.
Voltarsi indietro
L’orologio del divorzio, la messa in atto dell’articolo 50 che regola l’uscita dall’Ue, ha già cominciato a ticchettare furiosamente. Quasi in malo modo, i ministri degli esteri di tutto il continente hanno intimato all’«untore» di andarsene in tutta fretta prima di contagiare il resto dell’Unione, in una mossa brusca temperata soltanto dall’invito di Angela Merkel a non precipitare i toni e a non assumere atteggiamenti duri o punitivi nei confronti di questa separazione poco consensuale.
Island is an island is an island is an island
Se nessun uomo è un’isola, è vero anche il contrario. E la Gran Bretagna di venerdì mattina si è svegliata capovolgendo la celebre massima. L’isola è rimasta isola: lontana dal continente, da quell’Unione con la quale ha convissuto in un frigido matrimonio per quarant’anni che il 52 per cento dei votanti contro il 48 ha deciso di rescindere bruscamente all’alba di ieri. Londra, la Scozia e l’Irlanda del Nord si sono rispettivamente pronunciate al 62 e 55,8% per il remain, ma il Galles al 52,5% e tutto il resto dell’Inghilterra al 57% per il leave. Stavolta i mercati e gli allibratori hanno sbagliato, e alla grande.
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Restare per cambiare, una chiacchiera con Paul Mason
È un appuntamento politico storico per il Regno Unito, il più importante dal secondo dopoguerra: un referendum che deciderà il futuro del paese e dell’Europa intera. Il prossimo giovedì 23 giugno, i cittadini britannici, più gli irlandesi e i cittadini del Commonwealth che risiedono in Uk, saranno chiamati a rispondere sì oppure no alla domanda: «La Gran Bretagna dovrebbe restare membro dell’Unione Europea o no?». Continua a leggere “Restare per cambiare, una chiacchiera con Paul Mason”
Ecce Britannia
Il solerte martellamento sull’immigrazione delle ultime due settimane ha pagato. Sono un paio di giorni che i sondaggi danno in vantaggio il Leave di sei o sette punti e ormai panico (ed entusiasmo) sono diffusi. A destra come a sinistra, nella Camera dei comuni gli schieramenti sono agitati come i Martini dry del Bond nazionale.
Jeremain
Eccola, l’uscita in fondo a destra. I punti di vantaggio del fronte dell’uscita sono diventati sette. E la temperatura sale inesorabile anche fuori della Gran Bretagna, con il tabloid tedesco Bild, purtroppo il più letto d’Europa, che parla di «storia scritta nel fango», tanto per ammorbidire i toni di una campagna i cui toni anche a livello internazionale cominciano ad abbandonare il volemose bbene di un tempo.
Farage against the machine
Le ultime notizie dicono che il futuro dell’Unione europea è appeso a sei punti percentuali. L’ennesimo sondaggio – commissionato dal Guardian – dice infatti che il Leave è in testa con 53% contro il 47% del Remain e mette per la prima volta gli euroscettici decisamente avanti nella competizione quando mancano meno di dieci giorni al voto.
Uk anno zero?
Era il 1956, e la Gran Bretagna si leccava le ferite auto-inferte del dopo-Suez. Dean Acheson, l’allora segretario di Stato americano, commentò la spacconata imperialistica di Anthony Eden con l’emblematica massima: «La Gran Bretagna ha perduto un impero e non ha ancora trovato un ruolo».