Avere una costituzione non scritta è assai ecologista, permette un prezioso ed encomiabile risparmio di carta. Ma provoca anche effetti imprevisti e indesiderabili, come lo scontro di qualche giorno fa tra Jeremy Corbyn — che nonostante sia stato fasciato in frac istituzionali e forzato a indossare papaveri di plastica (i beneficenti «poppies» in solidarietà ai caduti di tutte le guerre) sul bavero della giacca, si ostina a mantenere le sue intollerabili posizioni antinucleariste — e il capo di stato maggiore dell’esercito Nicholas Houghton.
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La barra a dritta
Che il compito di Jeremy Corbyn fosse impari, si sapeva. È come se avesse conquistato la leadership dello stesso partito al quale si era proposto come alternativa nella campagna per le primarie: ovvio che la triplice alleanza non scritta di tories, moderati neolaburisti e media mainstream gli avrebbe dato immenso filo da torcere.
Corbyn la gazzella
Nella savana di Westminster, ogni giorno Jeremy Corbyn si sveglia e comincia a correre per affrontare il suo «momento della verità» quotidiano. Quello cioè in cui, da vero eroe, partecipando a una delle infinite cerimonie ufficiali dov’è prevista la presenza del leader dell’opposizione di sua Maestà, deve piegarsi a una ritualità la cui abolizione, riforma o superamento erano tra le cause del suo ingresso in politica. Tale è il paradosso politico della storia presente del Labour party.
Daje Jeremy
Con l’«inspiegabile» elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista si compie una specie di omerico nostos (ritorno), quasi un riavvolgimento veloce di una pellicola scritta e interpretata dalla generazione politica precedente (che poi, anagraficamente, è la sua): il film degli anni Novanta, del Labour tre volte vincitore, dei brindisi e pacche sulle spalle coi banchieri barracuda, delle pseudo-diatribe fra Blur e Oasis, nell’arte elettrizzante e ombelicocentrica di Damien Hirst e Tracey Emin, dell’aromaterapia come sostituto dell’analisi politica, della crescente marginalizzazione del sindacato e la dissoluzione del diritto del (e al) lavoro.
60 (per) CENT
Tutto il potere a Jeremy Bernard Corbyn: la base del partito ha parlato quasi all’unisono, e ad alta voce. Con un’assordante maggioranza del 59,5 % delle preferenze ha eletto al primo turno un sessantaseienne che per 32 anni – dal 1983 – ha servito dalle retrovie della sinistra socialista votando quasi regolarmente contro la linea ufficiale. Il suo vice sarà Tom Watson, classe 1967, di Sheffield, un modernizzatore esperto in comunicazione digitale e implacabile nemico della stampa di Murdoch.
Il mite Jeremy
Nell’estate che potrebbe riportare il Labour Party britannico nell’alveo della propria storia dopo tanto galleggiare in un dopostoria indeterminato quanto certo della propria irrevocabilità, Jeremy Corbyn continua a parlare davanti a traboccanti platee la cui età anagrafica è, nient’affatto sorprendentemente, bassa.
Attacco al cuore del sindacato
Perfino il Financial Times, quell’instancabile sobillatore della sedizione bolscevica, le aveva definite controproducenti: le norme restrittive sul diritto di sciopero in Gran Bretagna, annunciate nel Queen’s Speech alla fine del maggio scorso, sono state presentate mercoledì con puntualità elvetica.
The (Rotten) Legacy of Thatcherism
The Legacy of Thatcherism. Assessing and Exploring Thatcherite Social and Economic Policies, edited by Stephen Farrall and Colin Hay. Oxford University Press for the British Academy. 352 pp. £25.00.
The legacy of Thatcherism: how not to assess it? Even beyond the ‘Anglo-liberal’ shores, Margaret Thatcher is such a totemic figure that it could be argued—without fear of opprobrium—that the present British political settlement is still cast in a Thatcherite mould.
Una nazione unita nel cordoglio
La scomparsa dell’ideologo principale del New Labour ha provocato un’ondata di composta mestizia a Glasgow e a Brixton, dove era molto amata.

