LouLou

Non ho ancora sentito il disco di Lou Reed e Metallica, ho paura di farlo e non perché “già so che non mi piacerà” bensì proprio perché temo che non mi piacerà. Li ho visti da Jools Holland un mesetto fa, una jam intensa un po’ maldestra, un sacco di energia che sembrava spesa più a sottolineare la partnership, il fatto di vedere sullo stesso palco due realtà culturali così diverse e così simili a un tempo, che la convinzione della qualità di ciò che stavano suonando. Voglio solo fare un discorso, diciamo premusicale, sul significato allargato che ha questa strana coppia.

Continue reading “LouLou”

Replica

Qualcosa che possa sottrarti al drammatico imperativo del qui ed ora; che sia in grado di occupare lo spazio inafferrabile fra ruvido e carezzevole, stimolo e conferma, interrogativi e risposte; con una straordinaria title-track capace di sostenere lo sguardo della grande tradizione del Novecento jazzistico senza esserne accecata: quest’album, appunto.

Oneohtrix Point Never – Replica (Mexican Summer 2011)

Jurassic instant classic

Soffro di una bizzarra forma di semi-autismo che mi porta a fare certe cose (in tempi recenti: guidare l’automobile per giorni, andare in bicicletta per ore, correre, collezionare amplificatori e casse acustiche d’epoca) in maniera coatta, ripetitiva e continua, forse perché intravedo, cattolicamente, il profilo della redenzione nell’espiazione attraverso – appunto -, la ripetizione prolungata di un atto o di uno sforzo. O forse perché attraverso detta ripetizione prolungata perseguo l’alterazione e l’inebriamento, come quei bambini che girano su se stessi come dei piccoli Sufi. Potrebbe anche essere perché non ho figli.

Non è per dischiudere una prospettiva sul mio inutile privato, quanto per contestualizzare il fatto che sono quattro giorni che ascolto esclusivamente ed ininterrottamente The Hunter. The Hunter nella Volvo, The Hunter a casa, The Hunter in cuffia correndo, in cuffia camminando, The Hunter in ascensore, per le scale, al mercato, The Hunter di giorno, The Hunter di notte. Non avevo una fissa simile dai tempi in cui passavo i pomeriggi a fissare la copertina di Pinups di Bowie nel 1979.

Gli è che, a voler a tutti i costi citare l’impoetico magistero di Claudio Baglioni, in questo periodo scatologico che sto attraversando, The Hunter, ultimo misfatto degli ultrametallers Mastodon, è il mio gancio in mezzo al cielo; o meglio, è il gancio da macellaio al quale appendere quel quarto di bue a cui al momento somiglia detto mio privato; no, è un maledetto virus di un album, un colossale forziere stracolmo di riff e ganci venefici, sostenuto da quel patrimonio dell’umanità di batterista che è Brann Dailor (che qui sale a vertici mai raggiunti fino adesso), dalle grattugiate simil-banjistiche di Brent Hinds e Bill Kelliher e dalle epiche voci soliste di Hinds e Troy Sanders, il bassista.

Che sia piovuto dall’oscurità impenetrabile dell’universo o dalle viscere urlanti di lava dell’oltretomba geologico, partorito da un grifone fiammeggiante, da una lupa carca nella sua magrezza o da una copula concettuale fra l’Iliade e gli Slayer, poco importa: TH è tra gli ascolti più esaltanti che abbia fatto negli ultimi anni.

Ma prima di venire al dunque di quello che il disco è e significa per me, ci tengo a mettere preliminarmente una cosa in chiaro (e qui mi ripeto, chi se n’è accorto mi scusi): che una grossa – la maggiore -, fetta di consumatori di musica consideri la musica estrema come una degenerazione sonica e attitudinale di una subcultura specifica (punk, metal e quant’altro) dimostra, a parte la naturale questione di gusto estetico e tolleranza ai decibel, una preoccupante miopia: ormai sempre più spesso è proprio la musica estrema, e proprio perché tale, a dimostrare di avere al suo interno un sano tasso di spontaneità e creatività, ormai sconosciuto al pop, all’indie e che mi pare sia in preoccupante calo nell’hip-hop. Lo dimostra questo lavoro del quartetto di Atlanta: se ancora esiste, il vero folk anglosassone di oggi non si trova nelle pur garbate flânerie acustiche dei tremila gruppi con la barba e la camicia fuori dei pantaloni (spesso esponenti di una middle class capace di guardare al passato e di assimilarne le lezioni) ma proprio in questa stessa musica estrema, che solo per convenienza e sbrigatività ci limiteremo a definire metal: non a caso, tra le influenze della band il country figura in modo massiccio.

Diciamolo subito, secondo gli standard dei fedeli della chiesa della band di Atlanta si tratta di un disco decisamente “commerciale”. Niente tematiche storico-mitologiche, niente concept, niente pezzi di quattordici minuti con sessantacinque cambi di tempo, poche voci vomitate dalle interiora sulfuree dell’inferno. Nondimeno, è un disco mostruoso.

Già, perché tutto, nei/dei Mastodon, è mostruoso. La tecnica, gli staccato, la velocità di esecuzione, i suoni, la batteria, l’aspetto fisico (Brent Hind sembra un ossesso Nettuno con pezzi di gomene sfilacciate incastrati nella barba, un Laocoonte che lotta asfissiato contro i suoi incredibili tatuaggi), le copertine (fantastici animali polimorfi feriti a morte, denti affilati, froge fumanti, palchi di corna, artigli, occhi iniettati di odio e terrore). Sono un gruppo così sfacciatamente superiore ai loro pari (di ogni genere di musica) da rendere il paragone con molti imbarazzante. Provengono dal regno della musica estrema, una musica genericamente definita come metal, ma di quel genere – il metal -, sono chiaramente i seppellitori, avendone, proprio con questo disco, sancito il definitivo superamento, dimostrando che da quella piattaforma si possono visitare svariati generi (speed/classic/ death metal, country/bluegrass, progressive, anche alternative rock – basti pensare alla sghemba “Creature Lives”, chiaramente indebitata ai Pink Floyd di l’altroieri come agli Animal Collective di oggi), dando loro foga e spessore parossistici.

Dopo l’inutile (non l’ho nemmeno ascoltato e lo proclamo con morettiana arroganza) disco dei Red Hot Chilli Peppers (se conoscete qualcuno che meriti la palma di gruppo più spettacolarmente lontano dallo zeitgeist contemporaneo, ditemelo), i Mastodon tirano fuori un monumento che li introduce definitivamente nella superstardom. Perché The Hunter è esattamente l’opposto del disco dei RHCP: è lo stato di grazia di una band al culmine delle proprie energie creative, che gli farà compiere il salto nel mainstream. Comunque, siamo qui non per commentare le scelte dadaiste di certa stampa musicale italiana, bensì per apprezzare appieno il significato che l’uscita di un album come questo può avere per le nostre vite.

The Hunter scintilla di creatività e di gioia di suonare. Contrariamente ai quattro album-menhir precedenti, sorta di poemi epici suonati a breakneck speed, l’album non è concept (i precedenti avevano visitato gli elementi empedoclei di aria acqua, terra e fuoco); tuttavia restano le maestose cattedrali gotiche di staccato, cambi di tempo e gargolle solistiche a fare di questo disco un possente prontuario di come dovrebbe essere la musica oggi: rabbiosa, precisa, veloce, epica, introspettiva, luminosa. È un disco che rivisita e rifonda in un’architettura potentissima tutto l’obsolescente canone rock senza rigurgitarlo stancamente, come ormai siamo abituati da un quindicennio buono, se non da prima. È un disco al momento qualitativamente irraggiungibile da chiunque, la dimostrazione che una band al massimo della propria felicità compositiva può fare quello che vuole: mandare in pensione definitivamente Metallica e Slayer, certo (pur nel rispetto della lezione dei maestri), ma anche QOTSA e Tool, Foo Fighters e tutto quel bandwagon stracarico di epigoni dei Led Zeppelin. Di più, facendo un disco che piacerà a chiunque, tanto è buono, che non mancherà di allargarsi alle platee di massa, che sarà citato e tenuto presente da artisti pop ovunque.

Perché questo, ricordiamoci, è il disco “pop” dei Mastodon, dove si canta di più e si urla di meno, dove i brani hanno degli hooks infettivi, dei passaggi strumentali di struggente meraviglia, dove le tracce durano tutte meno di sei minuti, dove non si parla di struzzi ectoplasmatici dislessici (vedi Crack the Skye) e dove Brann Dailor diventa la rappresentazione più fedele della bellezza dell’umano gesto musicale, imbottendo ogni spiraglio libero dei brani con quel rullante (che usa meglio di qualunque altro batterista rock) quei tom e quei piatti implacabili, dove i suoni sono aperti e croccanti. Sembra quasi un disco di cover “mastodonizzate”, una collezione di classici rivisitati; e dove a tratti spunta anche la gioia: come nella per me s-u-p-e-r-l-a-t-i-v-a “Octopus has no friends”, ad esempio. Dove il senso della tragedia violenta dell’esistenza (“The Hunter”, “All the heavy lifting”) quasi ipocritamente espunto dalla musica popolare come per paura di mettere in crisi l’egemonia democratico liberale che garantisce la pace interna col disseminare orrore esterno, viene proclamato in tutta la sua drammaticità e icasticità: è anche così che questa diviene autentica, seppur inconsapevole, musica popolare. Aggiungete la fatica, l’esercizio, gli innumerevoli concerti, la cura artigianale della tecnica e si capisce come questa band assurgerà ora ai massimi vertici, forse anche radiofonici. Perché hanno alzato la barra con la quale dovranno confrontarsi negli anni a venire tutti coloro che suonano musica, che sia estrema oppure no. E, per rimanere ai primi, la pietra di paragone sarà il climax di tensione e forza di “All the heavy lifting”, sostenuto dalla vertiginosa doppia cassa di Dailor:

We didn’t come this far
Just to turn around
We didn’t come this far
Just to run away

A una cosa del genere, intensa quanto un’ouverture di Wagner, io mi ci aggrappo. Con le unghie e con i denti.

Ora che i REM si sono finalmente consegnati, benché in modo criminosamente tardivo, alla storia, la Georgia ci ha donato il quinto album di un altro suo gruppo fondamentale. Onde per cui, non fatevi spaventare da volume, pesantezza e velocità: mai come in questo caso sono stati messi al servizio di leggiadria e immediatezza. Un macigno, certo, ma con ali di farfalla.

Corporate Protopop

All’inizio degli anni Novanta ascoltavo molta roba rumorosa, più o meno come adesso.

La musica proveniente dagli USA dominava, soprattutto quella di Seattle. Non posso dire che non ascoltassi il grunge, anche se non mai posseduto un album dei Nirvana (la mia copia de poche di Nevermind apparteneva alla mia fidanzata di allora). Dei Nirvana ho sempre riconosciuto la missione storica ed economica (rendere l’attitudine punk appetibile al mainstream)  ma la cristologia di Cobain mi ha sempre lasciato freddino.

Tutto sommato, preferivo Alice in Chains e Soundgarden, li trovavo musicalmente più interessanti. la California ancora teneva, con Faith No More e Chili Peppers (questi ultimi ancora inspiegabilmente in giro). I Metallica erano da poco diventati un mostro, l’Air Force One del metal. Ma il barometro stava cambiando. Figuriamoci: ancora un poco e da questa parte dell’Atlantico sarebbe dilagata la spocchiosa manfrina del britpop. Aiuto.

Ma anche allora guardavo a New York come epicentro della musica che valeva la pena di seguire. A New York, madre della No Wave, di Suicide, Sonic Youth e dei miei venerati Swans, e dei Prong, the most underrated band in metal (i loro Cleansing e Rude Awakening sono due montagne di piombo fuso). La New York degli Helmet, band dal suono che era un incrocio fra un rasoio e una mazza (un’accetta?).

Nessuna città produce punk e derivati come New York, con la stessa cattiveria e cinismo, con la stessa lucida spietatezza, lo stesso ghigno intelligente.

E da New York proveniva questo fuoco fatuo di band, i Cop Shoot Cop. Figli della No Wave, influenzati pesantemente da Foetus e Swans, avevano una struttura “avantgarde”, senza chitarra: tutto agganciato a campionamenti, a due bassi e una batteria che impostavano staccato brucianti su cui il cantante, Tod A, rovesciava la sua dialettica al vetriolo. Anche un uso dei fiati avevano, interessante. E qualche pezzo notevole, soprattutto nei primi tre album: Consumer Revolt, White Noise e Ask Questions Later.

Registravano nel mitico studio BC di Brooklyn, erano prodotti da Martin Bisi, figura chiave di quel suono. Erano industrial, eppure biologici: avevano un’ironia sconosciuta al genere. Li vidi al Circolo degli Artisti a Roma e mi scalmanai parecchio. Un caos, quel concerto. Molto intenso. Ma la ragione per cui sto scrivendo dei Cop Shoot Cop non è certo la musica, nè per l’amarcord di un old dog che si commuove per un antico pogo dietro Piazza Vittorio.

Mi sono tornati in mente perché i riots di due settimane fa qui a Londra non sono altro che una Consumer Revolt, l’assalto di un esercito urbano di adolescenti inselvatichiti dalla frenesia repressa di consumare, repressa perché impedita dalla povertà.

Poi ho riascoltato White Noise. E sono inciampato in questo:

Che è senz’altro qualcosa in più del solito “fuck the government” ripetuto ad nauseam da una generazione di incendiari pronti a indossare la divisa da pompiere al primo cospicuo assegno. E’ una provocazione, certo, ma così vicina ai fatti, a ciò che siamo. Tutti noi, non solo gli Stati Uniti.

I CSC non ressero, non avevano un repertorio sufficiente. Ma non meritano l’oblio completo. Vi lascio con il loro pezzo mio preferito: “All the Clocks are Broken”, da Ask Question Later: quando la fecero, il Circolo venne letteralmente giù.

Dead Kennedys – Riot

Naturalmente, tutto il primo strepitoso disco dei Clash parla di quello che e’ successo qui a Londra. Ci sono differenze fondamentali fra questi riots e quelli di venticinque anni fa, ma le atmosfere descritte in quel folgorante esordio, teso, nervoso, nodoso, sono le stesse.

A molti viene da associare l’accaduto con “Anarchy in the Uk”, dei Pistols, ma non e’ un paragone abbastanza calzante, secondo me. E “London’s Burning”  non e’ un pezzo sui riots, quanto sulla noia e l’alienazione che portano alla violenza, uno stadio precedente. Pezzi che parlano dell’esperienza conclamata della violenza sono “Police and Thieves”, qui sotto, “Cheat”, “Remote Control” e, naturalmente, “White Riot”.

Ma il brano che descrive meglio di qualunque altro quello che sta succedendo qui in questi giorni – se non altro per via della descrizione scientifica delle sensazioni di esaltazione date dal distruggere le cose degli altri –  viene dai massimi Dead Kennedys e s’intitola, lapidariamente, “Riot”. Fa sembrare i Clash un gruppo quasi romantico, tanto ruvida, vuota e irredimibile e’ la violenza qui descritta. Perche’ questi riots hanno molto piu’ a che vedere con i disordini descritti dall’hardcore americano, da sempre depoliticizzato, che con quello londinese degli anni della Thatcher. Se questo brano eccezionale ha un “messaggio” (parola da talent show) e’ proprio quello dell’inutilita’ politica della violenza, anche quando sembri equivocamente esaltarne le caratteristiche.

Ho gia’ postato questo video in passato in occasione delle rivolte studentesche dei mesi scorsi, a cui tra l’altro si riferiscono alcune delle immagini montate con questo video, ma credo che vada riproposto, anche solo per via della performance di Jello Biafra, by far the most intelligent man in Hardcore Punk. L’aggettivo “viscerale” non le rende giustizia.

Rioting-the unbeatable high

Adrenalin shoots your nerves to the sky
Everyone knows this town is gonna blow
And it’s all gonna blow right now:.

Now you can smash all the windows that you want
All you really need are some friends and a rock
Throwing a brick never felt so damn good
Smash more glass
Scream with a laugh
And wallow with the crowds
Watch them kicking peoples’ ass

But you get to the place
Where the real slavedrivers live
It’s walled off by the riot squad
Aiming guns right at your head
So you turn right around
And play right into their hands
And set your own neighbourhood
Burning to the ground instead

[Chorus]
Riot-the unbeatable high
Riot-shoots your nerves to the sky
Riot-playing into their hands
Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Get your kicks in quick
They’re callin’ the national guard
Now could be your only chance
To torch a police car

Climb the roof, kick the siren in
And jump and yelp for joy
Quickly-dive back in the crowd
Slip away, now don’t get caught

Let’s loot the spiffy hi-fi store
Grab as much as you can hold
Pray your full arms don’t fall off
Here comes the owner with a gun

[Chorus]

The barricades spring up from nowhere
Cops in helmets line the lines
Shotguns prod into your bellies
The trigger fingers want an excuse
Now

The raging mob has lost its nerve
There’s more of us but who goes first
No one dares to cross the line
The cops know that they’ve won

It’s all over but not quite
The pigs have just begun to fight
They club your heads, kick your teeth
Police can riot all that they please

[Chorus]

Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Police and Thieves

in the streets.

Police and thieves in the streets

Oh yeah!

Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition

From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day
No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I sayPolice and thieves in the streets
Oh yeah!
Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day

No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I say

Police, police, police and thieves oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah
From Genesis oh yeah
Police, police, police and thieves oh yeah

Scaring and fighting the nation, oh yeah
Shooting, shooting their guns and – guns and ammunition

Police, police, police and thieves oh yeah
Scarin’, oh yeah
Scarin’ the nation, oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah

Here come, here come, here come
The station is bombed
Get out get out get out you people
If you don’t wanna get blown up

(il pezzo e’ un classico reggae di Junior Murvin)

Solopsismo

Oggi volevo scrivere un post sul rischio di disfacimento del nostro sistema economico e invece ho cambiato idea perché in questo momento è assai più urgente scrivere di qualcosa di estetico. Del resto, come ci insegnano storia e filosofia, la struttura non determina forse la sovrastruttura? Perdonate dunque quest’excursus sull’importanza del solo di chitarra elettrica nelle nostre vite di testimoni, vittime e correi dell’implosione del capitalismo maturo.

Per chi, come me, è nato poco prima del maggio francese ed è cresciuto testimoniando inconsapevolmente il suicidio politico (e fisico) della generazione del settantasette – mentre quella del sessantotto preparava il transito dei propri glutei dal tonico esercizio delle manifestazioni alla morbidezza accogliente delle poltrone che avrebbe occupato per almeno tre delle generazioni future -, il solo, detto anche “assolo”, era tabù, per via, naturalmente, della funzione sterilizzatrice che aveva avuto il punk.

La storia, la conosciamo fin troppo bene: il punk era colato come olio motore usato sui broccati del rock progressivo, tutto cervello e scale autoerotiche, e ne aveva bruciato gli eccessi, riducendo tutto a una tabula rasa. Via non solo gli assoli, ma anche la capacità di tenere un giro di do. Il legato teorico di questa operazione avrebbe lasciato un segno profondo sulla musica e su chi vi era cresciuto in mezzo, bandendo gli assolo dal panorama rock e affine. Dire che ti piaceva l’assolo era un’ingenuità da metallaro, e difatti il metal è stato l’unico genere in cui l’appestato assolo trovava non solo rifugio, ma anche culto. Il chitarrista metal (non del metal classico, eh), pur di millantare una perizia tecnica che aveva lontani e non del tutto inconsapevoli legami con quella romantica (l’epoca in cui il virtuosismo trovava la propria prima spettacolare codificazione, soprattutto ad opera di mostri come Paganini e Liszt) adottava una semplice ma efficace tecnica: suonare a velocità supersonica, e spesso perdendosi per strada, le stesse due corde, ottenendo così un effetto uragano dove era facile scambiare la velocità e il caos per bravura tecnica (Early Slayer, anyone?).

Devo dire che non ho mai subito il fascino del chitarrista in una formazione rock che dir si voglia: le mie preferenze sono di solito andate alla sezione ritmica, al bassista e al batterista, le fondamenta dell’edificio musicale. Il chitarrista, come il cantante, forse per la sua insopportabile preminenza, e per il suo stare sempre davanti e fare smorfie da contrazione orgasmico-deiettiva nel momento del climax virtuoso, non ha mai goduto del mio favore, a parte degli incidenti autobiografici di percorso subito contenuti. Ho sempre capito il disgusto per l’assolo rock: detesto cordialmente l’iconografia del chitarrista rock, non ho mai subito il fascino di Townshend e a Starway to Heaven ho sempre preferito Hairway to Steven e potrei continuare (chi volesse approfondire, può partire dalla voce cock rock). Mi piace molto Hendrix ovviamente, e uno che lo ha fuso con Bartòk, come Robert Fripp.

Ma ultimamente mi sono dovuto per forza convertire in parte all’assolo per via della carenza di possibilità compositive che il rock si autoimpone, anche nelle sue mille sfaccettature. In una parola: dopo trentacinque anni di ascolti, il pop-rock mi annoia (una volta eliminato il potente coefficiente mnemonico-nostalgico che contiene) e devo per forza emigrare nel jazz e nella classica per trovare delle esperienze musicali più avvincenti, salvo poi tornare sempre e comunque ai Ramones per ristabilire un grado zero e ricominciare tutto daccapo. L’assolo è un viaggio interessante e costituisce l’espressione più compiuta della bravura di un musicista. Quando non tracima in una marea di mucillagine sonora, cosa che – va detto – accade spesso, rappresenta ancora una delle espressioni più compiute di godimento musicale che sia dato avere in questa valle di rate agencies.

È stato anche per questo che ultimamente ho preso ad ascoltare un assolista forsennato, forse il più forsennato degli assolisti: Allan Holdsworth, uno che costruisce il pezzo attorno al solo, come nel jazz, per intenderci. Arguably, Holdsworth ha la tecnica di legato più incredibile che sia dato ascoltare. I suoi solo più riusciti sono come fare un browsing ravvicinato dei particolari della facciata del duomo di Colonia o dell’Alhambra: il Tutto armonico descritto in un flusso magico e incredibilmente luminoso, una coda di cometa. Un tutto che gli viene dall’ascolto dei fiati nel jazz, Coltrane in particolare. Questo quando gli vengono davvero bene. Non gli vengono spessissimo, perchè è un grandissimo musicista ma non altrettanto un compositore. Le sue cose migliori, a parte un paio di album solisti (segnalerei il ragguardevole Metal Fatigue tra i vecchi, Sand e The Sixteen Men of Tain, l’ultimo) sono con gli altri nomi con cui suonava a inizio carriera: tardi Soft Machine, il grande Tony Williams, UK, Bill Bruford, secondi Gong, J.-L. Ponty, ecc. ecc.

Ed è proprio dal pezzo d’apertura del primo disco da solo di Bruford (1978) che voglio segnalarvi la mia idea perfetta di assolo: non troppo veloce, non spumeggiante di note quanto una poesia di D’Annunzio lo è di parole, flessuoso ed economico: solo alla fine gli sfuggono le dita in un accelerazione turbocharged. In questo caso, il brano di apertura dell’altrimenti non entusiasmante Feels Good to Me, gli deve tutto. Fa da contraltare perfetto al drumming appuntito e metronomico di Bruford. Godetevelo, mentre l’economia degli Stati Uniti, per tacere di quella europea, lentamente si squaglia come i ghiacciai dell’Artide.

P.S. A proposito del pezzo live: Holdsworth, come tutti i grandi, cambia sempre dal vivo perché semplicemente va da un’altra parte, nel puro spirito dell’improvvisazione jazzistica. Per questo ho inserito la versione originale, secondo me superiore a quella live. Rispetto a quest’ultima, please notate come l’impaccio di questi musicisti faccia da ilare contrasto alla loro perizia tecnica. Il loro body language sul palco, soprattutto il caracollare incerto di Jeff Berlin, il bassista, esemplifica l’anomalia live del prog e della fusion, generi che si erano scavati uno spazio nell’estetica rock pur essendo privi dei prerequisiti sessual-teatrali di quest’ultimo.