Hit, hit, Hitler!

Potremmo chiamarla Hitler-lalia: la compulsione incontrollata a tirare fuori Hitler in un contraddittorio. Un disturbo del linguaggio che ultimamente colpisce soprattutto gli ex-sindaci di Londra. Sotto i riflettori è ancora una volta lui, Boris Johnson. Nella sua turgida verbosità è arrivato a sfoderare Hitler dal cilindro, rivaleggiando con l’ex-avversario – ex-sindaco pure lui – Ken Livingstone. Ma mentre Livingstone ha solo annoverato il dittatore nazi fra i «sionisti» – una sparata che gli è costata la sospensione temporanea dal Labour party – per Johnson è nientedimeno che l’Ue a meritarsi l’agognata similitudine con il caporale austriaco.

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Daydreaming

Il primo – struggente – singolo tratto da A moon shaped pool, l’ultimo dei Radiohead. Un album luminosamente lugubre, cameristico, venato di folk, che piano piano ti si insinua sotto la pelle. Che bel gruppo sono diventati, allontanandosi coraggiosi dalle logore convenzioni rock degli esordi. E Thom Yorke, capace di invecchiare con magnetismo, è ormai una magnifica Tilda Swinton della musica.

Sono evidentemente loro, i Radiohead, a tenere alta la bandiera di quel che resta del rock inglese, non certo quei noleggiatori di pere cotte – tiepide – dei Coldplay. Loving them.

Il canto definitivo del Duca

In mezzo alle mille esegesi sul testo di Blackstar, una cosa diventa chiara come un sole nero: Bowie stava congedandosi da questo primo spicchio di terzo millennio e ci stava lasciando il suo canto del cigno, anzi del duca. Forse ora sta nella stessa casa di riposo iperspaziale dove già alberga Lennon, col quale interpretò Fame, e dove senza dubbio andrà anche Dylan. E magari da lì guarda sgomento il mondo che ha contribuito a confondere. La sua dipartita coincide infatti con un momento di sfarinamento dell’occidente, in cui la rinuncia della postmodernità a voler prendere posizione sul mondo gli si ritorce contro con terribilità biblica. Tanto che inizialmente i riferimenti che si volevano trovare in Blackstar erano all’Isis e ai suoi massacri premoderni.

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All That Jaz

(Mi scuso se mi ripeto, ho già scritto in passato della mia prima intervista a Jaz Coleman, qui ne ho già pubblicata una, ne scrivo in continuazione, ma dopo aver visto questa, rilasciata al giornalista Mike James e ascoltando a ruota l’ultimo, spettacolare album Pylon, non ho resistito a tornarci sopra.)

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Killing Joke: la luce in fondo al tunnel

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A Londra fa un caldo assurdo per essere metà novembre, non sembra la stessa città. Questo senso di spaesamento spaziotemporale affligge particolarmente chi può ricordare il clima pre-global warming: grossomodo ancora venticinque anni fa, i coglionazzi del “tutto va bene” cominciavano a esercitare il proprio cinismo sulla scomparsa della mezza stagione.

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Completely irrelevant anniversaries – Bohemian Rhapsody

Our popular culture is full of irrelevant anniversaries. Like that of Bohemian Rhapsody, for a start: one of the most overblown, pretentious, cheesy and nonsensical singles in the whole of popular music.

Its only merit? To encompass everything that is wrong about Seventies’ rock.

Its worst guilt? To have inspired one of the most overblown, pretentious, cheesy and nonsensical contemporary “rock” bands: Muse.

Faith No More: quando l’attesa paga

A volte – anzi, quasi sempre – si riformano. I Faith No More tornano con “Sol Invictus” a diciotto anni dal loro ultimo “Album of the Year ”, del 1997: nostalgico appagamento per chi li ricorda riscrivere le regole del rock da stadio anni Novanta, quando fornivano un ironico contrappeso alla misantropia del grunge. E interessante scoperta per chi, all’epoca, metteva i dentini.

Si erano ritrovati a tavola, a pranzo dall’ex manager a Los Angeles. Patton (voce), Billy Gould (basso), Roddy Bottum (tastiere), e Mike Bordin (batteria). Uno squillo al chitarrista Jon Hudson, e nel 2008 ricominciano a suonare in giro per festival. Messo insieme nuovo materiale, hanno registrato a casa di Gould e pubblicato con l’etichetta di Patton, la Ipecac.

Formatisi nel 1985, i Faith hanno sfidato ogni categorizzazione. Il passaggio continuo dal metal a Ennio Morricone, dal soul più morbido al rap, dalle tastiere cortesi di Bottum al punitivo rullante di Bordin, ne fa un’avvincente enciclopedia di generi. In questi anni, Patton ha continuato così: con venti album e cinque o sei band ha rivisitato tutto lo scibile musicale, dai canti degli indiani d’America alle colonne sonore di B movie italiani anni Settanta.

(L’Espresso, 18/06/15)